150 anni fa: il 17 agosto 1862 nel Minnesota inizia la sollevazione dei Sioux Lakota, quando questi disperatamente attaccano gli insediamenti dei bianchi sul fiume Minnesota. Verranno sopraffatti dall’Esercito Statunitense sei settimane dopo

In quell’anno i raccolti erano stati particolarmente scarsi, un bruco maledetto, che i biologi chiamavano dell’agrotide, aveva devastato le piantagioni di mais. I Santee erano relativamente tranquilli. Nei trattati sottoscritti con i bianchi c’era l’impegno da parte del governo di fornire annualmente ai pellerossa un certo quantitativo di viveri. Tutto era ridotto all’osso, ma i vettovagliamenti promessi sarebbero stati sufficienti per superare la carestia senza morire di fame.
I Santee erano arrivati al limite delle scorte, ma continuavano a sperare, forti del loro buon diritto. Che senso avrebbe avuto lasciarli privi di mezzi di sostentamento? I bianchi non erano nella disperata situazione di doversi togliere il pane di bocca e inoltre i depositi governativi erano abbondantemente forniti. Perché allora il meccanismo di consegna delle derrate alimentari s’era inceppato? Perché nonostante i magazzini fossero colmi, i patti non vennero rispettati? Era semplicemente una questione di priorità. Le autorità centrali e periferiche stavano occupandosi di problemi più gravi e s’erano letteralmente dimenticati di tanti uomini, donne e bambini ormai privi di mezzi di sostentamento che rischiavano di morire di fame.
C’era la guerra e il governo non poteva pensare anche ai “selvaggi” Santee. La situazione, inevitabilmente, presto precipitò. Heinrich Berthold, un contadino di origine tedesca di New Ulm, così scriveva a un suo fratello a New York: “Sono indiani operosi, timorati di Dio, devoti ed onesti, generosi e di indole allegra. Eppure devono morire di fame. La loro è una situazione terribile. Noi li aiutiamo, come e quanto possiamo, ma i bruchi hanno fatto visita anche ai nostri campi. E i fornitori sono uomini senza scrupoli che li imbrogliano a ogni piè sospinto…” (Stammel: Indiani, ed. SEI).
Ta-oya-te-duta, che i bianchi chiamavano Piccolo Corvo, era il capo del clan dei Mdewkanton. Era un uomo di circa sessant’anni e nella sua vita aveva creduto sempre alle promesse dei bianchi. Quando aveva ceduto la terra era stato a Washington dal Grande Padre che i visi pallidi chiamavano Buchanan e aveva fumato la pipa della pace. Quando era tornato si era convertito al cristianesimo, aveva indossato gli abiti dei bianchi ed era diventato membro della chiesa episcopale che sorgeva presso Fort Ridgely. Il nome guerriero di Piccolo Corvo era Tshe-ton Wa-ka-wa Ma-ni, Falco-Che-Caccia-Camminando e quell’anno i bianchi avrebbero imparato che non gli era stato imposto per niente. Piccolo Corvo era infuriato a causa del lardo avariato, della farina con i vermi e del whisky che i mercanti facevano bere alla sua gente. I viveri che il governo doveva mandare non erano stati inviati e adesso la gente di Piccolo Corvo aveva fame.
Le avvisaglie di ciò che sarebbe successo si ebbero all’inizio di agosto: gli indiani vennero a richiedere le loro razioni di cibo che non c’erano. Né d’altra parte l’agente indiano, che si chiamava Galbright, era disposto a fornire i quantitativi necessari a sfamare i Santee fino a quando non fosse arrivato il denaro da Washington. Alla metà del mese, Piccolo Corvo e tutto il suo clan di Mdewkanton fecero capire all’agente che non avrebbero più aspettato.
“Abbiamo atteso a lungo”, disse Piccolo Corvo; “il denaro è nostro ma non riusciamo ad entrarne in possesso. Non abbiamo da mangiare ma qui vi sono magazzini zeppi di cibo. Chiediamo a te, agente, di sistemare le cose in modo tale da permetterci di usufruire degli approvvigionamenti dei magazzini, altrimenti troveremo noi stessi il modo per non patire la fame. Quando gli uomini sono affamati si aiutano da sé”.
Invece di comprendere la disperazione degli indiani, i commercianti che avrebbero dovuto venire incontro all’agente Galbright per saziare la fame dei Santee ed esporsi in prima persona fino a quando non fossero arrivati i rimborsi del governo, uno di essi tale Andrew Myrick, secondo la testimonianza che è stata tramandata dal farmer tedesco Sebastian Muller, disse sdegnosamente: “Se hanno fame, che mangino l’erba o la loro stessa merda”.

Fu così che il 17 agosto alcuni giovani Santee, esasperati, si diressero verso una fattoria dove uccisero tre uomini e due donne, razziando tutto ciò che potevano. Era la guerra. Piccolo Corvo lo sapeva e considerato che era stato all’Est e aveva visto la potenza degli uomini bianchi, cercò fino all’ultimo di evitare il conflitto. Ma neppure lui, in quelle condizioni, era in grado nel suo campo di imporre la pace.
Il giorno dopo, infatti, i Santee si scatenarono: per primo toccò all’agenzia indiana e a tutti i commercianti dei dintorni: furono i primi venti morti della rivolta.
Nella stessa giornata un contingente di soldati cadde in un’imboscata e lasciò sul terreno ventiquattro morti.
L’azione dei Santee, condotta da un migliaio di guerrieri, si articolò in tre direzioni: prima la colonia di Acton, poi Mildford, un centro ad ovest di New Ulm, poi la stessa New Ulm ed infine Fort Ridgely. A Mildford ci furono cinquantuno morti e secondo le testimonianze un guerriero di nome Naso Tagliato uccise uomini bianchi “finché non ebbe il braccio stanco”.
Ovviamente ci furono anche inutili atrocità: una donna e il bimbo furono bruciati vivi mentre cercavano di sfuggire ai Santee su un carro di paglia. Ebbri di gioia per le facili vittorie, i guerrieri si diressero quindi verso Fort Ridgely ma benché fossero di molto superiori nel numero (il forte era difeso da centocinquanta soldati e da venticinque civili) furono sonoramente sconfitti al termine di due sanguinosi assalti. Durante un attacco fu ferito anche Piccolo Corvo. Delusi per lo smacco subito, gli indiani si diressero allora verso New Ulm: il mattino del 23 agosto divisi su due colonne i Santee investirono la città con una vera grandine di proiettili, frecce incendiarie e lance. Ma nemmeno a New Ulm gli indiani riuscirono a ottenere la vittoria che si proponevano. Nonostante avessero ucciso più di cento nemici e distrutto più di duecento edifici, le loro pance rimanevano vuote e la loro situazione assai precaria: da St. Paul si stava avvicinando forte di ben 1400 uomini il VI Reggimento del Minnesota comandato dal colonnello Henry Hastings Sibley. Il prossimo arrivo dei soldati, anziché migliorare, in effetti peggiorò la situazione. Alcuni giovani insofferenti al comando di Piccolo Corvo e timorosi di scontrarsi in campo aperto con Sibley e i suoi uomini, si diedero alla guerriglia soprattutto sulla riva settentrionale del Minnesota. Per i bianchi furono momenti tremendi: nel giro di poche settimane gli indiani uccisero oltre mille bianchi, per la maggior parte contadini di origine tedesca. Che i Sioux Santee fossero comunque avversari da prendere con le molle, i soldati lo capirono nei giorni successivi quando una compagnia di settantacinque militari attaccata da un contingente di indiani perse in pochi minuti di combattimento sei uomini e ne ebbe altri quindici gravemente feriti.
Nondimeno il proposito di Piccolo Corvo, forte di aver fatto circa duecento prigionieri in massima parte donne e bambini, era quello della pace.

Se volete approfondire la storia dei pellerossa potete farlo sfogliando i 5 volumi dell’enciclopedia Indiani nella biblioteca dell’Antica Frontiera.

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